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Evoluzione della Giurisprudenza per l'assegno di mantenimento

Attività > Diritto Civile > Famiglia

Evoluzione nella giurisprudenza dell’assegno di mantenimento

L’Orientamento della Cassazione
in tema di assegno di mantenimento.

Dal 1990 fino alla Sentenza “Grilli” estesa anche alla separazione
abbandonato il criterio del tenore di vita.

1 – Orientamento interpretativo dell’art. 5 legge n. 878/70 – dal 1970 alla sentenza Cass. SS. UU. 1990/11490 – funzione assistenziale dell’assegno di mantenimento e criterio del tenore di vita
L’art. 156 c.c. disciplina gli effetti della separazione sui rapporti patrimoniali tra i coniugi sancendo  la possibilità, in sede di separazione consensuale o giudiziale, di stabilire un assegno di mantenimento a favore del coniuge più debole al fine di garantirgli il mantenimento dello stesso tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.
Solo con l’entrata in vigore della Legge sul Divorzio, n. 878/1970, il legislatore ha riconosciuto, all’art. 5, la stessa possibilità in capo al coniuge divorziato che si trovi in una situazione economicamente svantaggiata rispetto all’altro stabilendo che: “con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale dispone, tenuto conto delle condizioni economiche dei coniugi e delle ragioni della decisione, l’obbligo per uno dei coniugi di somministrare a favore dell’altro periodicamente un assegno in proporzione alle proprie sostanze e ai propri redditi. Nella determinazione di tale assegno il giudice tiene conto del contributo personale ed economico dato da ciascuno dei coniugi alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di entrambi. Su accordo delle parti la corresponsione può avvenire in una unica soluzione”.
La disciplina contenuta  nell’art. 5 è stata poi rinnovellata con la L. del 6 marzo n. 74/1987, dove al comma 6 il legislatore ha meglio precisato che “con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”.
Con l’inserimento, nell’art. 5 co. 6 della legge del 1970, dell’espressione: qualora egli non abbia adeguati redditi propri” è stato pertanto attribuito all’assegno divorzile una funzione meramente assistenziale, subordinando la concessione dell’assegno alla circostanza che la parte beneficiaria non abbia mezzi adeguati o non abbia modo di procurarseli per poter mantenere il precedente tenore di vita.
Come si evince dalle disposizioni sopra richiamate, i presupposti e i criteri per la determinazione dell’assegno di mantenimento e di divorzio sono solo in parte diversi.
Presupposto legale per l’attribuzione sia dell’assegno di separazione che di quello divorzile consiste pertanto, nel non avere mezzi o redditi adeguati o comunque di non potersi procurare tali redditi  per ragioni oggettive.
In altri termini, nel segno di una sostanziale continuità tra vita coniugale e vita post-coniugale, sopravvive il principio di solidarietà economica tra i coniugi anche dopo il divorzio. Tuttavia se non vi sono dubbi sulla funzione solidaristica dell’assegno divorzile, manca una chiara indicazione del legislatore in merito alla definizione e alla interpretazione del concetto di “solidarietà post coniugale”.
Sul punto la giurisprudenza si è divisa in due orientamenti:
Il primo ruota attorno alla nota sentenza della Corte di Cassazione del 17 marzo 1989, n. 1322 (Relatore Finocchiaro), ai sensi della quale l’obbligo di un coniuge di somministrare periodicamente, a favore dell’altro, un assegno sorge quando l’altro coniuge è privo di mezzi adeguati o non può procurarseli per ragione oggettive.
Sul punto il Collegio, richiamando l’equivalente espressione usata in tema di separazione dall’art. 156 c.c., aveva sostenuto che tale difetto di mezzi o redditi adeguati sussisteva allorquando il coniuge preteso beneficiario dell’assegno non avesse redditi propri che gli consentissero di mantenere un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio.
Il secondo invece muove dalla successiva sentenza della Suprema Corte, la n. 1652, del 2 marzo 1990, (Relatore Senofonte) in cui si è sostenuto che la valutazione sull’adeguatezza dei mezzi economici o sulla possibilità di poterseli procurare doveva essere compiuta con riferimento non al tenore di vita di cui si era goduto durante il matrimonio, ma alla carenza dei mezzi conseguenti alla dissoluzione del matrimonio.
Orbene, le Sezioni Unite, chiamate a risolvere tale contrasto, aderirono, con le note sentenze del novembre 1990, n. 11490 e 11492, al primo dei due orientamenti precisando che “l’assegno periodico di divorzio – come modellato dalla riforma del 1987 – ha carattere esclusivamente assistenziale, atteso che la sua concessione trova presupposto nell’inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante, da  intendersi come insufficienza dei medesimi, comprensivi di redditi, cespiti patrimoniali ed altre utilità di cui possa disporre, a conservargli un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, senza cioè che sia necessario uno stato di bisogno, e rilevando invece l’apprezzabile deterioramento, in dipendenza del divorzio, delle precedenti condizioni economiche, le quali devono essere tendenzialmente ripristinate, per ristabilire un certo equilibrio”.
Ovvero: “il presupposto per concedere l’assegno è costituito dall’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente (tenendo conto non solo dei suoi redditi ma anche dei cespiti patrimoniali e delle altre utilità di cui può disporre) a conservare un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, senza che sia necessario uno stato di bisogno dell’avente diritto, il quale può essere anche economicamente autosufficiente, rilevando l’apprezzabile deterioramento, in dipendenza del divorzio, delle condizioni economiche del medesimo che in via di massima, devono essere ripristinate,in modo da ristabilire un certo equilibrio. La misura concreta dell’assegno – che ha carattere esclusivamente assistenziale- deve essere fissata in base alla valutazione ponderata e bilaterale dei criteri enunciati dalla legge (condizione dei coniugi, ragioni della decisione, contributo personale ed economico dato da ciascuno nella conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, reddito di entrambi, durata del matrimonio) con riguardo al momento della pronuncia di divorzio. Il Giudice, purché ne dia sufficiente giustificazione, non è tenuto ad utilizzare tutti i suddetti criteri, anche in relazione alle richieste e deduzioni delle parti e dovrà valutarne in ogni caso l’influenza sulla misura dell’assegno stesso, che potrà anche essere escluso sulla base dell’incidenza negativa di uno o più di essi.”
La giurisprudenza successiva si è allineata, in maniera pressoché unanime, alla posizione espressa dalle Sezioni Unite precisando che il tenore di vita da tenere in considerazione sia non soltanto quello effettivamente goduto in costanza di matrimonio, ma anche quello che poteva ragionevolmente fondarsi su aspettative maturate in costanza del matrimonio stesso.
Dal 1990 in poi è dunque prevalso l’orientamento interpretativo secondo il quale a
fondamento della determinazione dell’assegno divorzile deve porsi il “tenore di
vita goduto in costanza di matrimonio”.  

2 –  Inversione di tendenza. Ordinanza del Tribunale di Firenze del 23 maggio 2013 n. 239 e sentenza della Corte Costituzionale n. 11 del 2015
Una inversione di tendenza è però  segnata dall’Ordinanza del 22 maggio 2013 n. 239  con cui il Tribunale di Firenze ha posto  la  questione di legittimità Costituzionale dell’art. 5, sesto comma, della legge 1° dicembre 1970, n. 898 sul presupposto che: “l’obbligo di assegnare al coniuge economicamente più debole un assegno volto a garantire il medesimo tenore di vita goduto in costanza di matrimonio viola il principio costituzionale di ragionevolezza il cui fondamento è nell’art. 3 della Costituzione”
Con la sentenza n. 11 dell’11 febbraio 2015 la Corte Costituzionale dichiarava infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata,  sul solo presupposto che il tenore di vita goduto durante il matrimonio non deve essere considerato l’unico parametro di riferimento ai fini della statuizione sull’assegno divorzile.
La Corte Costituzionale quindi  non si dimostrava contraria all’analisi prospettata dal Tribunale di Firenze ma, evidenziava, che il parametro del tenore di vita rileva per determinare in astratto il tetto massimo della misura dell’assegno, ma concorre e va bilanciato, caso per caso, con tutti gli altri criteri indicati nello stesso art. 5 che agiscono come fattori di moderazione e diminuzione della somma considerata in astratto, potendo valere anche ad azzerarla.
La sentenza della Corte Costituzionale costituisce quindi una nuova apertura all’interpretazione dell’art. 5.

3 – Un passo nuovo - Onere della prova. Cassazione Civ. sez. I Sent. del 9 giugno 2015 n. 11870
Un passo nuovo, e ancor più deciso, viene compiuto dalla Giurisprudenza di legittimità con  la sentenza del 9 giugno 2015 n. 11870 con cui la  Cassazione  segna uno spartiacque tra le situazioni in cui vi è un’effettiva situazione di bisogno della donna –in cui l’assegno di mantenimento assume una valida giustificazione - e le altre in cui lo stato di bisogno è solo il frutto di un capriccio o della pigrizia – nel cui caso l’assegno va negato.
L’inversione di rotta segnata dalla sentenza di cui sopra consiste nel ritenere che una donna giovane, in grado di lavorare e quindi, di reperire con la propria attività quel reddito necessario per   mantenere lo stesso tenore di vita in cui godeva durante il matrimonio, non ha diritto ad alcun mantenimento. Ciò anche se durante l’unione svolgeva funzioni di casalinga.
Sulla base di questo presupposto infatti, la Cassazione rigettava la domanda di mantenimento di una casalinga, per non aver fornito alcuna prova dell’oggettiva impossibilità di procurarsi mezzi adeguati per conseguire un tenore di vita analogo a quello mantenuto in costanza di matrimonio.
L’aspetto centrale di tutto il discorso è dato però dall’onere della prova che quindi è a carico della parte che richiede l’assegno. Sarà quindi quest’ultima a dover dimostrare che sussistono i presupposti e quindi l’assenza di mezzi adeguati per conseguire un tenore di vita analogo a quello mantenuto in costanza di matrimonio e la impossibilità di procurarsele per ragioni oggettive.
In altre parole l’importanza del principio affermato nella sentenza in esame è quello secondo cui la dimostrazione delle difficoltà economica e della impossibilità di procurarsi reddito spetta a chi lo richiede.
Il concetto del “tenore di vita in costanza di matrimonio” non  è più, quindi, un concetto statico ma dinamico da valutarsi adeguando il presente al passato e ad un presumibile futuro.

4 – Cassazione sentenza n. 1104 del 10 maggio 2017 – abbandono del tenore di vita -  criterio dell’indipendenza economica e dell’autoresponsabilità
Il criterio di adeguamento dell’assegno divorzile al tenore di vita viene  definitivamente abbandonato con la  cd. sentenza Grilli emessa dalla Corte di Cassazione sez. I in data 10 maggio 2017 n. 11504 che muta il proprio orientamento  in materia di assegno divorzile e che, partendo dalla premessa che “una volta sciolto il matrimonio civile o cessati gli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio religioso, il rapporto matrimoniale si estingue definitivamente sul piano dello status personale dei coniugi”, ha stabilito che  “il diritto all’assegno divorzile va riconosciuto alla persona dell’ex coniuge  non già in ragione del rapporto matrimoniale ormai definitivamente estinto, ma soltanto in considerazione di esso ove si valuti positivamente la sussistenza del presupposto della mancanza dei mezzi adeguati o dell’impossibilità di poterseli procurare per ragioni oggettive”.
Scopo del contributo mensile successivo al divorzio – afferma la Corte – non è più garantire (vita natural durante) lo stesso «tenore di vita» goduto durante il matrimonio (se così fosse, le nozze sarebbero un’assicurazione), ma solo l’autosufficienza economica.
Il nuovo criterio è quindi quello dato dall’indipendenza economica. Restano però le vecchie regole per l’assegno di mantenimento: onde non far trovare, di punto in bianco, il coniuge più debole economicamente con la necessità di trovare una sistemazione: finché la coppia non è divorziata resta l’obbligo di pagare un assegno rapportato al vecchio tenore di vita.
Nel giudizio di accertamento del diritto all’assegno divorzile però, il parametro di riferimento per valutare l’adeguatezza-inadeguatezza dei mezzi, ovvero la possibilità-impossibilità a poterseli procurare, non può coincidere con il tenore di vita matrimoniale; parametro quest’ultimo  che, secondo il ragionamento seguito dalla Cassazione, collide con la natura stessa  dell’istituto del divorzio che è quello di estinguere definitivamente il rapporto matrimoniale, sia dal punto di vista personale che da quello economico –patrimoniale.
In particolare la Corte rileva come a seguito dello scioglimento del matrimonio civile, ovvero alla cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio religioso, il rapporto matrimoniale si estingue definitivamente sia per quanto riguarda lo status personale dei coniugi,  “i quali devono considerarsi da allora in poi persone singole”, sia con riferimento ai loro rapporti economico patrimoniali, fermi gli obblighi nei confronti della prole derivanti dall’esercizio della responsabilità genitoriale.  Una volta dunque perfezionatasi l’estinzione del rapporto, il diritto all’assegno divorzile viene subordinato all’accertamento  “della mancanza dei mezzi adeguati dell’ex coniuge richiedente o, comunque all’accertamento dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive”.
Viene inoltre ribadito come gravi sul coniuge richiedente l’onere della prova, apparendo di tutta evidenza  “che il concreto accertamento, nelle singole fattispecie, dell’adeguatezza – inadeguatezza dei mezzi e della impossibilità-impossibilità di procurarseli può dar luogo solo a due ipotesi  1) Se il richiedente l’assegno possiede mezzi adeguati o è effettivamente in grado di procurarseli, il diritto deve essergli negato tout court; 2) se, invece, lo stesso dimostra di non possedere mezzi adeguati e prova anche che non può procurarseli per ragioni oggettive, il diritto deve essergli riconosciuto”
Il criterio dell’indipendenza economica dell’ex coniuge impone allo stesso richiedente di allegare, dedurre e dimostrare, “di non avere mezzi adeguati” e “di non poterseli procurare per ragioni oggettive” .
Il giudizio sull’adeguatezza-inadeguatezza dei mezzi del richiedente dovrà pertanto risolversi in un accertamento circa l’eventuale indipendenza economica dello stesso, o sulla sua idoneità ad esserlo, condizioni, queste, che certamente farebbero venir meno il riconoscimento del diritto all’assegno divorzile.
Sulla scorta di tale premessa, pertanto, la Suprema Corte è giunta ad escludere, nel giudizio di valutazione del diritto all’assegno divorzile, il criterio del preesistente tenore di vita in cambio di quello dell’autoresponsabilità, affermando che non è configurabile un interesse giuridicamente rilevante o protetto dell’ex coniuge a conservare il tenore di vita matrimoniale. L’interesse tutelato con l’attribuzione dell’assegno divorzile non è il riequilibrio delle condizioni economiche degli ex coniugi, ma il raggiungimento dell’indipendenza economica, in tal senso dovendo intendersi la funzione – esclusivamente assistenziale – dell’assegno divorzile.”
Ma cosa deve intendersi per indipendenza economica?                                  
Sul punto rilevano  alcune pronunce di merito che, all’indomani della innovativa sentenza, hanno fatto applicazione del suindicato nuovo principio.
Il Tribunale di Milano sez. IX civile con l’ ordinanza del 22 maggio 2017 ha  evidenziato che per “indipendenza economica” deve intendersi “la capacità per una determinata persona, adulta e sana – tenuto conto del contesto sociale di inserimento -  di provvedere al proprio sostentamento, inteso come capacità di avere risorse per le spese essenziali (vitto, alloggio, esercizio dei diritti fondamentali)”. La soglia stabilita dal Tribunale, perché possa dirsi raggiunta l’indipendenza economica, è di 1.000,00 euro ed inoltre, il Giudice, nel compiere questa analisi, ben può adottare come parametro di riferimento quello rappresentato dall’ammontare degli introiti che, per legge, se non superato consente all’individuo di accedere al patrocinio a spese dello Stato.
Questo perché, l’assegno divorzile non deve tradursi in una impropria misura, finalizzata a colmare eventuali sperequazioni tra i redditi degli ex coniugi, ma nella verifica delle posizioni, le quali devono essere lette secondo il principio della auto-responsabilità economica di ciascuno dei coniugi, come persone singole; fermo restando l’onere probatorio dell’esistenza del diritto sul richiedente, e sempre salvo l’ulteriore irrinunciabile principio del «non pregiudicare» la possibilità per l’onerato di condurre anch’esso una vita dignitosa.
Il Tribunale di Roma – sentenza 23 giugno 2017 n. 12899 -  ha seguito l’orientamento della Cassazione ed ha evidenziato che per la verifica dei criteri dell’an debeatur è il richiedente a dover fornire la prova della insussistenza dei criteri elaborati dalla Corte di Cassazione. Tale principio prevede che sia il richiedente a doversi attivare a dimostrare di essersi attivato a trovare un lavoro e non può limitarsi a semplici prove generiche e non circonstanziate.  Deve infatti dimostrare di essere nell’impossibilità – per impedimento fisico od altro - di svolgere qualsiasi attività lavorativa. Se dovesse limitarsi a dedurre di aver svolto incarichi occasionali non avrebbe sufficientemente provato di essere nell’impossibilità di svolgere un’attività lavorativa e perderebbe il diritto all’assegno di divorzio. Il Tribunale di Roma ha evidenziato altresì che la scelta di trasferirsi presso la casa dei genitori è dimostrazione di avere una ulteriore disponibilità economica derivante dagli aiuti di quest’ultimi e dalla dispnibilità di un domicilio gratuito.
In questo senso la Corte d’Appello di Roma con il decreto 1786/2017 che ha negato alla moglie la richiesta di revisione dell’assegno di mantenimento. La particolarità della sentenza della Corte di appello di Roma è di aver confrontato due situazioni in cui i due coniugi presentavano due redditi tra loro diversi, dove la moglie aveva uno stipendio più basso del marito. Ma poiché questa risultava titolare di immobili, è stata ritenuta comunque «autosufficiente economicamente» e, pertanto, le è stato negato anche l’assegno di mantenimento.
La moglie è stata considerata in grado “per capacità di lavoro, di reddito e di patrimonio, di provvedere con i propri mezzi a sé stessa”. Niente più assegno di mantenimento, quindi. E anzi, la revoca è stata disposta con decorrenza dall’ordinanza presidenziale reclamata: si è così aperta la via perché il ricorrente ottenga la restituzione di quanto pagato sino ad allora e non dovuto per mancanza dei presupposti
Il Tribunale di Venezia, poi, nel di poco successivo decreto n. 4443/2017, ha richiamato anche ulteriori indici dai quali è possibile desumere l’indipendenza economica, ovvero il possesso di redditi propri, l’effettiva capacità e possibilità lavorativa, la disponibilità di un patrimonio mobiliare ed immobiliare, nonché di una stabile abitazione. Il Tribunale di Venezia ha infatti rigettato la richiesta avanzata dalla moglie laureata, considerate le sue capacità e possibilità effettive di lavoro, oltre alla stabile disponibilità della casa familiare assegnatele.

La Cassazione peraltro, con la sentenza  n. 11538/2017, sulla scorta di quella emessa precedentemente, ha  precisato che  l’assegno divorzile deve essere disposto in favore della parte istante la quale disponga di redditi insufficienti a condurre un’esistenza libera e dignitosa”, condizione da valutarsi, in ogni caso, avendo a mente i criteri indicati nella prima parte dell’art. 5 della legge sul divorzio.

Con la sentenza n. 12196 del 16 maggio 2017 la Cassazione, riconfermando i principi di cui sopra, ha poi evidenziato che detti criteri valgono  esclusivamente nella valutazione di un assegno di divorzio ma non possono essere applicati all’assegno di mantenimento perché è chiaro che,  vige una profonda differenza tra il dovere di assistenza coniugale nell’ambito della separazione personale e gli obblighi correlati alla cd. “solidarietà post coniugale” nel giudizio di divorzio.



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